Contagion

Un soffio, un sorso di un qualche cocktail, un bacio, una serata di svago in un casinò qualsiasi, e si diffonde il contagio. Nessuno è al sicuro, e apparentemente non c’è cura.

Una donna in carriera si gode una serata di divertimento un po’ evasivo, lontano da casa, e subito si scatena l’epidemia. La suddetta donna torna a casa dopo il viaggio,e si spupazza un po’ il suo bambino. Ma oltre a fargli le coccole, lo infetta. Un marito apprensivo avverte la moglie di fuggire dalla città che stanno per chiudere e mettere in quarantena. Ovviamente fa promettere alla donna di non dire niente a nessuno; lei, altrettanto ovviamente, lo dice alla migliore amica, che lo dice a… tutto il mondo. E sono guai per quel povero fesso del marito. Potrei anche continuare, ma cari Steven Soderbergh e sceneggiatore, lasciatevelo dire subito: siete un po’ sadici.

Contagion è un film che si muove su scala globale e racconta la diffusione di un’epidemia che decima la popolazione mondiale. Ed è un film che funziona discretamente quando inquadra la storia dal punto di vista di chi tenta di trovare una cura e di circoscrivere il contagio. Funziona meno invece quando la sceneggiatura pesca a piene mani nel già visto, rendendo tutto troppo prevedibile. Fortunatamente questo è un po’ mitigato da una regia che non cerca il colpo di scena. Non che Soderbergh faccia miracoli, sia chiaro, ma riesce almeno a evitare di cadere nel ridicolo involontario.

Il tutto è appoggiato su (tanti) attori famosi sfruttati poco, ma che comunque riescono a dimostrare (chi più, chi meno) la loro bravura. Fatta eccezione per Jude Law, che invece conferma di saper interpretare solo personaggi odiosi a pelle.

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Alfred Hitchcock’s Season: Rope – Nodo alla gola

Poco prima di una cena organizzata da loro, due giovani e ricchi studenti uccidono un loro amico, nascondendo il corpo in una cassa al centro della stanza, con l’intenzione di aspettare la fine della serata per sbarazzarsene.

Ironia e cinismo si (con)fondono in Rope, e la scrittura dei dialoghi unita alla sperimentazione formale (ovvero ciò che rende Hitchcock un grande regista) riescono a creare tensione e a instillare il dubbio nello spettatore. Se infatti egli è nella posizione privilegiata di conoscere di più dei personaggi in scena, viene costantemente messo dal regista in una sorta di limbo in cui riesce a percepire come i fatti volgeranno ad una conclusione, ma che gli nega ripetutamente la certezza di cui ha bisogno. Tutto questo grazie a grandi trovate registiche: Hitchcock costruisce infatti la narrazione in tempo reale e attraverso diversi piani sequenza in cui la camera vaga per la stanza (teatro e cinema si incontrano, il primo al servizio del secondo). Questo schema viene poi spezzato sapientemente da stacchi di montaggio, voluti per interrompere il ritmo, aumentare la tensione e quindi per mantenere l’attenzione dello spettatore.

Ma senza una sceneggiatura ben calibrata (che si lascia anche andare a riflessioni filosofiche, forse in modo un po’ troppo compiaciuto e sfacciato), Rope sarebbe solo un (bel) esercizio di stile. E la grandezza del film si vede anche in questo: la tensione viene creata anche attraverso i dialoghi per nulla banali, che sanciscono inesorabilmente la caduta dei protagonisti verso un finale previsto ma efficace. Quel “Sono già qui!” che chiude la pellicola nega qualsiasi sentimento di liberazione ai due protagonisti, così come lo nega allo spettatore: egli non prova alcun tipo di soddisfazione nell’arrivare al finale, perché la consapevolezza di aver assistito ad un crimine compiuto per motivi quasi disumani nella loro insensatezza elimina qualsiasi possibilità di catarsi.

In tutto questo, grande risalto viene dato alle prove degli attori. Se infatti la coppia di protagonisti è brava a far trasparire la malcelata debolezza dietro la maschera di perbenismo, la prova che veramente colpisce e buca lo schermo è quella, ovviamente, di James Stewart, alla sua prima collaborazione con il regista. L’incredulità e addirittura il disgusto che si leggono sul volto di un professore i cui insegnamenti sono stati storpiati per giustificare un omicidio rimangono impresse a lungo.

New season, new life

Eccomi qua!

Lo ammetto: nell’ultimo periodo ho trascurato il blog. In generale ho trascurato un bel po’ di cose, ma tra lo studio, gli esami, l’università e bla bla bla… Insomma, avete capito qual è la solfa .

Inoltre, il blog stava prendendo una strada che non mi piaceva affatto. Stava diventando noioso e monotono, soprattutto perché in questi mesi non è che abbia recensito film di grande interesse. Perciò, avevo bisogno di puntare un po’ più in alto, di mettere più carne sul fuoco, di rischiare.

Come dicevo, eccomi qua! Pronto a presentarvi la mia prima rubrica che abbia un minimo di senso: Season. Sta arrivando l’estate e il caldo, gli esami sono finiti (ripeto: HO FINITO GLI ESAMI. Grazie Ca’ Foscari!) e il tempo libero aumenta. Questo per me significa che è il momento di rispolverare la mia anima di cinefilo e recuperare tutti quei film e quegli autori che durante l’anno ho finito per bistrattare e mettere (vergognosamente) in un angolo. Film che hanno fatto la storia del Cinema, autori che hanno veramente qualcosa da dire (o che sembra che abbiano qualcosa da dire, o che almeno ci provano!). Registi che hanno ispirato altri registi, o che a pelle sembrano interessanti e che vorrei scoprire. Artisti forse non “perfetti” (nessuno lo è, ma spero abbiate colto il senso), ma con un minimo di personalità. Specifichiamo: non sono un veggente, non tutto quello che vedrò mi piacerà. Ma un cinefilo deve saper rischiare, e soprattutto deve (dovrebbe) essere onnivoro.

Non ho la presunzione di diventare il più grande esperto di Cinema (cosa che non succederà), semplicemente ho voglia di coltivare e di dare una forma a questa mia passione e di colmare tutte le immense lacune che mi ritrovo.

Perciò ho deciso che, per ridare vita al blog, dovevo iniziare Season con un regista che ha veramente lasciato il segno sia nell’arte stessa che nella cultura popolare: sir Alfred Hitchcock. Chi di voi non ha visto almeno una volta la scena della doccia di Psyco? O una scena qualsiasi di Intrigo Internazionale, de Gli Uccelli, o de La Finestra sul Cortile (solo per citarne alcuni)? Lo dico subito: quelli che vedrò saranno film un po’ meno conosciuti di quelli che ho appena citato (ma neanche tanto).

Ora basta con le chiacchiere, mettiamoci al lavoro. E buona lettura (spero)!

That’s all Folks!

The Woman in Black

Never forgive.

Daniel Radcliffe rischiava di non togliersi più di dosso l’immagine di Harry Potter. Quanti di voi pensavano che, finita la saga di Harry Potter, l’attore inglese sarebbe riuscito a reinventarsi come attore vero e proprio, capace di calarsi in ruoli più diversificati ed inconsueti? Sarò sincero: io non avrei scommesso un centesimo su di lui. Un po’ perché non è che avesse dimostrato tutte queste grandi capacità nella saga, e un po’ perché sarebbe stato estremamente semplice adagiarsi sull’immagine che si era costruito. Sarà anche presto per giudicare, ma The Woman in Black fa ben sperare per il futuro di Daniel.

Arthur Kipps è un avvocato inglese a cui viene dato il compito di gestire le proprietà di una cliente defunta.

Tra queste c’è Eel Marsh House, una dimora sperduta tra le paludi e infestata dal fantasma di una donna vestita di nero, un’anima disperata e in cerca di vendetta. Una vendetta che colpisce i più innocenti ed indifesi: i bambini.

The Woman in Black è il ritorno ad un cinema di genere che mancava un po’ dagli schermi: quello dell’horror puro, con qualche spruzzatina di gotico. Il film non si vergogna della sua natura, ma al contrario la esalta, sfruttando tutti gli stilemi del genere a suo vantaggio e portandoli all’estremo. Porte che si aprono, fantasmi in secondo piano, scricchiolii di qua e di là, rumori improvvisi, oggetti che si muovono senza apparente motivo. Nella prima metà il regista James Watkins gestisce bene tutto questo, riuscendo a raggiungere un livello di tensione tutt’altro che disprezzabile.

La parte centrale soffre invece di un calo del ritmo evitabile: se infatti i cliché all’inizio funzionano, dopo un po’ si cade nella trappola della ripetitività se non si sa come gestirli. Questo mina gran parte della tensione e del lavoro fatto in precedenza. Per fortuna, invece, il finale non delude. Non è del tutto imprevedibile, ma è sfruttato bene, funziona e commuove.

Sul versante attori, come ho detto Daniel Radcliffe se la cava bene. In un film che richiede più espressioni che parole (qualsiasi riferimento a Harry Potter è volontario!) Radcliffe funziona ed è credibile. Certo non è perfetto e non ha uno di quei carismi che buca lo schermo, ma è pur sempre un inizio. Ed è fortunato ad essere (sempre) circondato da grandi attori: questa volta è il turno di Ciaran Hinds (per la cronaca, anche lui era in Harry Potter) e di Janet McTeer, entrambi decisamente molto bravi.

Regala diversi brividi The Woman in Black. Non è nulla di rivoluzionario o di straordinario, ma svolge il suo compito dignitosamente. Di film horror così ce ne dovrebbero essere di più.

In Time

In Time è la prova perfetta di come sia possibile gettare alle ortiche delle basi più che buone, realizzando un film innocuo e che non sa dove andare a parare.

In un futuro distopico (mi chiedo: quando non viene immaginato come tale?) il tempo è letteralmente diventato denaro. Le persone smettono di invecchiare a 25 anni, e da quel momento in poi si devono guadagnare ogni minuto della loro esistenza; perciò i ricchi sono immortali, mentre i poveri lottano per sopravvivere giorno per giorno. Will Salas (Justin Timberlake) riceve in dono un secolo da un uomo a cui ha appena salvato la vita: si ritroverà catapultato nell’alta società, e insieme a Sylvia (Amanda Seyfried), figlia di uno degli uomini più ricchi al mondo, tenterà di far collassare il sistema, in nome della “giustizia sociale”. Un Bonnie and Clyde in salsa futuristica.

Come ho detto, le basi del racconto riescono ad essere davvero interessanti: la società futuristica, così come ci viene presentata, funziona ed è credibile (oltre che molto efficace) nel suo essere metafora della società contemporanea. Anche gli attori, seppur non totalmente sfruttati, fanno il loro dovere (a parte il cattivo interpretato da Vincent Kartheiser, che scade nella macchietta).

Ma le cose buone finiscono praticamente tutte qua, perché dopo non molto il regista e sceneggiatore Andrew Niccol (che ha davvero bisogno di appoggio nella scrittura degli script) decide di abbandonare la via del film “serio” (come definizione non mi piace molto, ma tant’è…) per buttarsi in un tipo di action che stona con le premesse e che scade nel ridicolo involontario (certe scelte di sceneggiatura durante gli inseguimenti sono imperdonabili).

Voglio dire, le vie che si potevano scegliere se si voleva fare un film di fantascienza/azione erano due: o ti basi su premesse interessanti per fare un film di azione “intelligente”, oppure te ne freghi e confezioni un pop corn movie utile solo per passare quelle due orette staccando il cervello.

In Time non è né carne né pesce, ma finisce per diventare l’ennesima occasione sprecata.